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Le opinioni di 62camillo

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Parlami d'amore (Lemebel Pedro)

Parlami d'amore (Mariù) non è più soltanto una canzone (24-09-2016)
Sabato mattina. Una inusitata quanto provvidenziale trasferta in treno mi ha offerto su un piatto d’argento la possibilità di leggere, in un’andata e un ritorno, questo libro di Pedro Lemebel, il cui titolo è dichiaratamente ispirato alla celebre canzone italiana. Un finale strepitoso, con una delle più belle lodi all’ozio-lavoro che abbia mai letto, viene preceduto da nove cronache o, se preferite, nove dipinti a tinte tutt’altro che fosche – anzi, i toni sgargianti e le esilaranti battute al vetriolo entrano ed escono in continuazione, senza avvisare, da quasi tutti i racconti – nei quali Lemebel tratteggia i volti, gli eccessi e persino le preoccupazioni del suo mondo e di un’intera generazione che, unica sua compagna l’arte, lottò, non senza pericoli e non senza delusione, contro la dittatura. Grazie a “Parlami d’amore” noi oggi abbiamo la conferma che quella resistenza artistica, con i suoi improvvisi putsch rischiosi dagli effetti quasi impercettibili - “al tiranno però non spostavamo nemmeno la visiera del berretto” ammette Lemebel – fu portata avanti senza alcun clamore. Furono atti pericolosissimi travestiti da goliardate, dei quali nessuno parlò mai, nè in Cile, né tantomeno all’estero e, dunque, di blitz in pieno centro per i quali questi giovani un po’ strampalati erano disposti a farsi arrestare e persino a morire pur di dipingere di rosso una fontana o cambiare le scritte dei segnali stradali per canzonare la dittatura. Nel libro si incontrano figure e figuranti di ogni tipo. Protagonisti e non,dalle trovate e dagli espedienti tipici di chi vive una vita sempre in salita o, più semplicemente, non vuole che una quiete millenaria sia interrotta dalle novità. Tra queste – ma è come sempre una mia idea - svettano, per creatività ed efficacia, la zelante suorina di un museo, incaricata di restauro, per così dire, “creativo” ed una non meglio identificata “maledetta cicciona” che tira fuori dai guai il Nostro ed un amico prendendo, come dai pantaloncini di Eta Beta, l’attrezzo giusto al momento giusto.

Numero undici Storie che testimoniano la follia (Jonathan Coe)

Bentornata (?), cara, odiosa famiglia Winshaw (17-09-2016)
“La famiglia Winshaw è tornata!” annuncia, con tutta la forza conferitale dal punto esclamativo, la fascetta rigorosamente color rosso Union Jack che avvolge la copertina di “Numero 11”, l’ultimo romanzo di Jonathan Coe. Un lancio forse un po’ bugiardo per quanti, con un po’ di ingenuità, si aspettavano un sequel nel senso ortodosso del termine, con in primo piano il rampollo di questo, la nipote di quell’altro ed il figlio naturale di quell’altro ancora a tenere banco dopo tanti anni, con la loro sete di potere e la ricerca spasmodica della felicità, loro nota sotto un'unica forma: quella della ricchezza. Per fortuna “Numero 11” non è niente di tutto questo e anche se i lunghi tentacoli dei ricchi finanzieri si tendono in ogni pagina, i suoi protagonisti sono ben altre persone, molto più normali ed umane, anni luce lontani dal più normale ed umano membro della famiglia Winshaw e dei suoi tanti sodali. Sono persone che lavorano e che hanno difficoltà sempre più evidenti ad ottenere ed a mantenere un posto fisso, a far quadrare i conti, a pagarsi cure troppo costose, a fare studiare i figli. Detto in altri termini, persone del nostro tempo, con una vita mediamente scomoda, che pagano - Claudio Lolli mi perdonerà se lo cito – “la colpa di non avere colpe”, se non quella di vivere inn un'epoca nella quale le scelte del passato - con la potente famiglia al tempo stesso artefice e beneficiaria - spiegano tutti i loro effetti. Senza mai tralasciare l’intento e la voglia di denunciare – che sembrano messe lì a fare da sfondo, ma sono, come sempre, l’asse portante del libro - lo scrittore di Birmingham comincia con grande maestria a descrivere fatti e situazioni apparentemente slegati tra loro, ma retti da personaggi che, malgrado tutto, riescono a non pensare sempre “al mercato quando decidono cosa fare della propria vita”. Tra un inizio ed un finale stupefacenti, a cantiere aperto (il riferimento non è buttato lì a caso) l’autore mette in bocca a Laura una teoria sul “valore edonistico” come prezzo delle emozioni e ci fa ricordare quel periodo della nostra vita nel quale, liberi dalla necessità di scegliere sempre e comunque qualcosa, vivevamo "come avvolti in una calda ed avvolgente coperta". Quindi, ricompone tutti i pezzi e fa calare il sipario sulla storia, nel frattempo diventata una sola, e sui suoi protagonisti. Ed è un sipario pesante, con un finale che lascia annichiliti. A fare da collante, manco a dirlo, i tanti Winshaw (vivi e defunti), che si trastullano a fare capolino in tutto il romanzo, proprio come i dispettosi dei dell’Olimpo, tutti lì intenti a fare le bizze e ad influenzare la vita dei terreni. Da leggere senz’altro. Anche prima de “La famiglia Winshaw”, a patto che poi si passi subito a quest'ultimo.

La famiglia Winshaw (Coe Jonathan)

Un romanzo che è anche qualcosa di più (08-03-2016)
Ho conosciuto i libri di Jonathan Coe per caso o, per essere sincero, per errore. Fu, infatti, solo grazie a non so quale maldestra combinazione di cifre di un ordine on line che un giorno arrivò al mio domicilio, “proprio per me in esclusiva” un pacco, all’interno del quale trovai, tra gli altri, anche “La banda dei brocchi”, versione italiana dell’inglese “The rotters’ club” del 2001. Presto, non solo fui ben grato a quell’errore, ma divenni, lo confesso, un fan sfegatato dello scrittore di Birmingham e in tale veste ufficiale mi sono nel tempo attrezzato per leggere tutti, ma proprio tutti, i suoi libri pre e post 2001. Tra quelli del periodo precedente - la prima edizione italiana è del ’95 – c’è “La famiglia Winshaw” pubblicato da Feltrinelli ed oggi giunto ad una più che ragguardevole ventiduesima edizione. “La famiglia Winshaw” è sì la cronaca delle ben poco eroiche gesta dell’omonima famiglia, ma è anche molto di più. Come in altre sue opere (di certo il già ricordato “La banda dei brocchi” ed il suo sequel “Circolo chiuso”) anche qui Coe ha, secondo me, il merito di tenere il lettore incollato al libro, invitandolo, con garbata determinazione, a scrutare difetti e debolezze dei personaggi ed a conoscere i tanti drammi che affliggono una società schiacciata da un potere detenuto da pochi e compressa da una politica che devasta vite umane e famiglie senza alcun preavviso (se state pensando al Thatcherismo avete indovinato). Un susseguirsi di storie, dunque, ma anche improvvise rasoiate di humour che vi faranno sussultare – magistrale il dialogo tra Roddy e Pyles, il maggiordomo, dopo l’incidente occorso al padre sulla sedia a rotelle – ed una denuncia aperta delle tante iniquità sociali fanno, a mio parere, de “La famiglia Winshaw” uno di quei romanzi che va letto anche con il sospetto, perché no, che non sia soltanto un romanzo.

Vita degli elfi ( Muriel Barbery)

Splendida conferma (24-09-2016)
Quando si scrive un libro strepitoso, il successivo lavoro dello stesso autore rischia di essere sopraffatto dai paragoni (quando va bene) o dalle critiche, anche caustiche (quando va male). “Vita degli elfi” è un bel libro, con un solo difetto, appunto: viene dopo “L’eleganza del riccio”, romanzo strepitoso (la ripetizione è voluta) di Muriel Barbery, con la portiera molto particolare di un condominio della Parigi bene, il suo perspicace e galante amico giapponese e una curiosa ragazza, anch’ella molto attenta alle vicende del palazzo. (Non posso e non voglio dirvi altro: vi invito a leggerlo, se non lo avete già fatto). Questa volta le ragazze sono due, Maria e Clara, entrambe dotate di un talento artistico di prim’ordine, ma soprattutto in grado – ed è questa la chiave di volta di tutta la vicenda - di ricorrere, perché la conoscono bene, alla natura, nel tentativo di mettere in contatto il mondo reale con quello soprannaturale, in un’epica battaglia tra il bene e il male. Sullo sfondo, tanti uomini (e donne) semplici, ma decisi; con i piedi per terra, ma affascinati dai riti magici; con le necessità di tutti i giorni, ma sempre equilibrati (avete mai incontrato cacciatori che stanano i conigli con rispetto e non ne mettono insieme più del ragionevole?) Se, dunque, l’ultima fatica della Barbery partiva zavorrata dalla fatidica domanda: “Sarà una conferma o una delusione?”, la risposta, secondo me, non può che essere: “Sì, è una splendida conferma” ed anche se l’asticella con il libro precedente era stata posizionata molto in alto, anche quest’ultimo salto non è niente male.

Il regno (Emmanuel Carrere)

Luca dice "Questo è il regno" e noi qui a cercare di capire (29-03-2016)
L’ho appena terminato, con la solita ansia che mi assale leggendo le ultime pagine di un libro che, so per certo, tornerò a consultare altre volte. Per questo, l’ho sottolineato in modo quasi sconsiderato e per questo motivo, l’ultima parte mi ha richiesto molto più tempo del solito. Quasi a non volerlo finire. Se potessi (ma non posso) mi piacerebbe poter confermare a Carrere che è vero, con questo libro ho imparato molte cose e queste cose mi hanno fatto e mi fanno riflettere. E se oggi o domani dovessi essere fermato per strada dall’extraterrestre di Mendoza o dall’alieno di Flaiano per avere notizie su un certo Gesù e sulla sua cricca, regalerei loro questo libro, invitandoli - tra un Paolo di Tarso e un Domiziano, tra un’isola greca e un figliol prodigo, tra un esattore delle tasse ed un medico di Antiochia di nome Luca – a tentare di capire cos’è veramente il Regno. Strada non facile, certo. Ma molto più vicina di quanto si pensi (vero Elodie?).

Colazione da Tiffany (Truman Capote)

Un libro elegante, come gli abiti della signora Hepburn (16-02-2016)
Il solito dilemma se sia meglio il film o se, viceversa, la preferenza vada al libro qui si risolve subito con un sonoro ex aequo. Difficile parlare, infatti, male di una pellicola, quando dietro c'è un mostro sacro come Blake Edwards e la scena (oltre al gatto) è tutta per l'attrice più elegante ed affascinante di tutti i tempi. Quella Audrey Hepburn che, tanto per non farci mancare niente, si è anche distinta a fianco dell'UNICEF e si è permessa di fare una vita "normale", come quando, come racconta il figlio, si mettevano in fila al cinema, a Roma, per acquistare i biglietti. (Assessori e sottosegretari imparino). Chi ha seguito, come me, il percorso inverso rispetto a quello canonico e, quindi, ha prima visto (varie volte) il film e poi letto il libro, già dalle prime pagine, ha dovuto mettere in soffitta una certa supponenza, scoprendo una scrittura fluida, efficace, mai esagerata. Proprio come gli splendidi abiti della Signora Hepburn. Lo consiglio vivamente a chi, per esempio, intende disintossicarsi da uno di quei libri monstre che si devono leggere a tutti i costi, in modo da saperne parlare nei salotti. Dove, difficilmente, vi chiederanno di Truman Capote e, meno che mai, di Colazione da Tiffany. E dove vi consiglio di non confessare mai che avete pianto per il povero Gatto.

Open. La mia storia (Agassi Andre)

Il re. Di uno sport odiato, certo, Ma pur sempre un re (17-09-2016)
Sono davvero ben lieto di vedere che “Open”, il libro sulla storia di Andrè Agassi sia tornato in classifica – quella dell’inserto domenicale del Corriere – dopo ben quattro anni dalla sua pubblicazione per i tipi di Einaudi. Il libro, ovviamente, non è solo opera sua, perché scritto a quattro mani con il premio Pulitzer J.R. Moehringer (a ciascuno il suo mestiere) il quale, come ricorda l’autore ufficiale nei generosi ringraziamenti, non ha voluto mettere il suo nome in copertina. E così, anche in questo passaggio inedito della sua vita, Agassi si è trovato da solo ad affrontare l’ennesima sfida, uscendone, manco a dirlo, ancora una volta ben vittorioso. “Ho scoperto tardi la magia dei libri” scrive negli spogliatoi dell’appendice, con la stessa franchezza con la quale, senza mai vantarsene, parla dei suoi record, in parte ancora imbattuti. Una franchezza che gli permette di parlare con una naturalezza disarmante dei momenti bui e delle paure e, con sincero trasporto, dei vari trionfi, senza mai ostentarli come imprese epiche (quali invece sono). “Open”, grazie a Dio, non è un libro sul tennis, ma un racconto che ha il pregio di svelare ai tanti osservatori distratti e pieni di pregiudizi – folto drappello al quale da anni appartengo di diritto – cosa può nascondersi dietro la vita intensa e strepitosa di un ragazzo che, dopo avere replicato a milioni di milioni di lanci e bruciato migliaia e migliaia di scatti, diventa per un lungo periodo il numero uno al mondo. Prima di questo primato c’è, grazie al libro, la cronaca spietata di giorni tutti uguali e tutti tremendamente faticosi, che ci fanno sussultare e ci mettono una gran voglia di farlo evadere da una prigione, quella creata dal padre, presidiata, cerbero d’eccezione, da una macchina autocostruita, capace di sputare non so quante palline al minuto, con un ometto dall’altro lato del campo pronto a ribattere senza requie. Roba da far sembrare Sisifo uno scansafatiche. Alla fine del match – pardon, della lettura – ci si ritrova pervasi da un sincero affetto per questa sorta di folletto conciato come uno dei Kajagoogoo, che, tra dolori e crampi inenarrabili e senza tesserne mai le lodi, diventa il re del tennis. E’ a questo punto che l'ex, impettito, ometto ritratto ad 8 anni con Borg abbandona i suoi travestimenti ed espedienti (non svelo il più simpatico) per restare solo e soltanto quello che è: un re. Di uno sport odiato, certo. Ma pur sempre un re.


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